martedì 30 marzo 2010

JAMES BROWN




Dimenticate quel signore di mezza età col parruccone e la pancia stretta in una panciera elastica dai colori improbabili. Dimenticate Rocky IV e 'Living in America'.

Oggi parliamo di James Brown, parliamo dell’unico e inimitabile Godfather of Soul, di Mr. Dynamite, the Hardest Working man in the Show Business. Parliamo di come un ragazzino cresciuto da una zia in una catapecchia della Georgia, in assoluta povertà, lucidando scarpe, raccogliendo cotone e rubacchiando qua e là abbia potuto meritarsi cotanti appellativi.

Dopo un inizio folgorante come Soul singer grazie a singoli di successo quali “Please, please, please” del ‘56 e “Try me” del ’58, Brown comincia ad arrangiare in modi differenti la sua musica, con intenzioni più jazz. Come nel jazz infatti, al centro del processo creativo pone le jam sessions sia in stage che in studio e l’improvvisazione, da lui stesso guidata, come motore e meccanismo alla base di tutto il suo lavoro. Non meraviglia scoprire quindi che i bandleaders di Brown fossero jazzisti. Alfred ‘Pee Wee’ Ellis, bandleader durante il periodo della genesi del funk, studiava da Sonny Rollins quando si unì al gruppo nel 65. Fred Wesley, bandleader a fasi alterne dal 69 al 74, si è sempre definito un “frustrato trombonista be- bop” e andò a suonare con Count Basie subito dopo le sue session funk degli anni 70. Brown capisce inoltre come far ruotare tutto attorno al groove anzichè alla melodia e questa rimarrà una rivoluzione che ancora ha impatto sulla musica dei nostri giorni. I problemi con i suoi precedenti manager, l’esperienza dei tour, l’arrivo del chitarrista Jimmy Nolen, del batterista Melvin Parker e del suo giovane fratello Maceo, aiutano poi Brown a mettere maggiormente a fuoco il suo sound:

Mi resi conto che la mia forza non era nei fiati, ma nel ritmo. Pensavo qualsiasi strumento, anche le chitarre, come fossero batterie e finivo per sentirli come batterie. Avevo anche capito come far avvenire questa magia. Durante l’ascolto delle registrazioni, quando vedevo gli speakers saltare, vibrare in un certo modo, la riconoscevo per ciò che era: Emancipazione, libertà. E potevo dire anche solo guardando gli speakers se il ritmo era giusto o no.

Il risultato del lavoro di questo periodo è “Papa’s got a brand new bag”, il brano che cambiò la soul music per sempre. Considerato il ‘fossile originario’ del funk, il brano fu registrato nello stesso mese in cui fu assassinato Malcolm X e uscì il 17 Luglio del 1965, tre settimane prima delle “Watts riots” a Los Angeles, le insurrezioni nate come reazioni alla brutalità della polizia nei confronti della gente di colore.

Quella fu la canzone della svolta. Rivoltò tutti sotto sopra. Perché enfatizzai l'uno e il tre al contrario di quello che succedeva col tradizionale modo di contare della musica scritta sul due e sul quattro. Ma ci aggiunsi anche gospel e jazz e andai contro tutte le regole.

Solo James Brown fu capace di navigare le onde dei ritmi contrastanti senza esserne travolto e insegnò a un intero universo di musicisti a ‘rinunciare o a lasciarsi andare’ (Give it up, or Turn it a loose).
La ‘nuova borsa’ (brand new bag) del padrino del soul era già nota agli appassionati del Rhythm and Blues che ne avevano ascoltato gli ingredienti base in "Out of sight" del 1964, ma per l'estate del 1965 il mostruoso groove era già presente e riconoscibile in tutta la sua nuova e vibrante energia in brani come "Respect" di Otis Redding, "Uptight" di Stevie Wonder e "No Pity (in the naked city)" di Jackie Wilson.
Dalla Seconda Guerra Mondiale, la struttura ritmica standard dei batteristi R'n'B era stato lo shuffle. Con il Funk, lo shuffle divenne obsoleto.
La scomparsa dello shuffle (lo strisciare) ha però un significato anche più profondo.
Con l’uscita di “brand new bag” si apre un periodo in cui Brown carica a tal punto di significati la propria musica che la sua carriera finisce per deviare in una direzione completamente nuova. Siamo nel periodo di “It’s a man’s man’s world” (il mondo è degli uomini), di “money won’t change you” (i soldi non ti cambieranno), di “don’t be a drop-out” (non abbandonare la scuola).
James Brown colpisce l’ascoltatore con la cruda verità del quotidiano. Primitiva, viscerale, emotiva. Ma d’altronde questo è sempre stato l’obiettivo della musica nera.
In uno dei momenti più memorabili della sua carriera, Brown convince il sindaco di Boston a tenere ugualmente il suo concerto previsto per quella sera, nonostante fosse il giorno della morte di Martin Luther King e a mandarlo in diretta televisiva, di modo da distrarre le persone da quella tragedia e evitare disordini per le strade. Grazie a questo evento, i danni per le strade di Boston vengono contenuti. Brown attraversa quindi la nazione predicando il suo messaggio di “mantenere la calma” e “studiare, non bruciare”. Dice alla gente “di farsi un’educazione, lavorare sodo e provare a crearsi una posizione per poter possedere qualcosa. Questo è Black Power”.
A quei tempi qualsiasi personaggio pubblico di colore era tenuto a dire la propria sulla Black Revolution e Brown era ormai ben radicato nel cuore dei neri e chiunque era conscio del potere che aveva sulle persone. Venne quindi il momento di una presa di posizione decisa e meno moderata sul futuro della sua gente.
Quello che Brown realizza ebbe forse il più grosso impatto sulla nazione nera dai tempi delle morti di King e Malcolm X.
“Say it loud (i’m black and i’m proud)” è un punto di svolta nella musica nera, mai prima d’allora la musica nera popolare aveva così esplicitamente espresso l’amarezza dei neri nei confronti dell’uomo bianco e in più la cosa viene veicolata attraverso del ferocissimo funk. Altri pezzi in passato erano stati intesi simbolicamente come delle “chiamate alle armi”, ma Say it Loud è un invito all’azione:

Vogliamo l’opportunità di fare le cose per noi stessi
Siamo stanchi di sbattere la testa contro il muro
E di lavorare per qualcun’altro.
Siamo persone, siamo proprio come gli uccelli o le api
Moriremmo in piedi piuttosto che
Vivere ancora strisciando sulle ginocchia
Ditelo forte, Sono nero e ne sono fiero!

La segregazione decideva che i neri non dovevano mai stare in piedi diritti di fronte a un bianco, mai guardare un bianco negli occhi, o replicare a un bianco, ma solo trascinarsi via (shuffle), a testa bassa, con la loro dignità completamente perduta. Ecco che lo shuffle, uno dei tanti aspetti della "negritudine", venne spazzato via negli anni Sessanta.
Ad una generazione di neri frustrati che capivano bene Malcolm X quando parlava di prendersi la libertà “con ogni mezzo necessario”, Brown tocca un nervo scoperto. “Say it loud” influenzò chiunque, dai poeti rivoluzionari Umar Ben Hassan e Gil Scott-Heron a Marvin Gaye e Stevie Wonder. Arrivò persino agli intellettuali di colore, ai poeti che già lo ritenevano uno di loro furono entusiasti della sua presa di coscienza.
Il brano arrivò al N.1 della classifica soul e N.10 di quella pop ma fu anche l’ultimo brano in top 10 per James Brown fino al 1986 e l’inizio del declino del Padrino del Soul. Il suo pubblico bianco lo abbandonò non capendo il brano o fraintendendolo, ma quella fu una mossa che Brown non ha mai rimpianto:

La canzone mi è costata una buona parte del mio pubblico. Non rimpiango comunque di averla registrata, anche se è stata fraintesa. Ce n’era pesantemente bisogno all’epoca. Aiutò gli afro-americani in generale e qualsiasi uomo dalla pelle scura in particolare. Sono fiero d’averlo fatto.

Paolo Zecca

James Brown salva Boston, il giorno della morte di Luther King:

Papa's got a brand new bag al Sullivan Show:

James Brown - GET UP OFFA THAT THING

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